MENU

L’azione inibitoria e il quid pluris della Class Action Italiana

L'azione inibitoria e il quid pluris della Class Action Italiana
Il Tribunale di Torino, I sez. civile, Giudice Stefania Tassone, con la sentenza n. 7375/06, emanata nella causa promossa da un'associazione dei consumatori contro la Wind Telecomunicazioni s.p.a., ha fatto fare un notevole passo avanti sulla strada della cosiddetta via giurisprudenziale alla Class Action in Italia. Il merito della vicenda ha riguardato i contratti "Solo Infostrada" e in particolare la mancata attivazione del servizio con il quale Wind prometteva ai contraenti di non essere più legati al canone Telecom. Tale associazione dei consumatori chiese, in primo luogo, la dichiarazione di inadempimento per la mancata attivazione del servizio. Inoltre, sostenne che tale inadempimento costituisse un comportamento lesivo nei confronti dei consumatori e degli utenti. Richiese, infine, l'inibitoria ex art. 3, della Legge 281/98 anche in relazione all'art. 1469/6 c.c. per l'utilizzo delle clausole sulla limitazione della responsabilità di Wind, sulla mancata attivazione del servizio e sulle clausole risolutive espresse.
Fin qui nulla di nuovo: tutte le richieste erano in linea con la legislazione vigente. Chiedeva però l'associazione dei consumatori, per diminuire gli effetti del comportamento di Wind, che il Tribunale le ordinasse di inviare una comunicazione scritta a tutti i contraenti, per informarli del loro diritto a ricevere la restituzione dei canoni Telecom dalla data di sottoscrizione del contratto "Solo Infostrada".
La richiesta di condanna di Wind Telecomunicazioni s.p.a. "al risarcimento del danno derivante dalla lesione degli interessi collettivi dei consumatori", costituisce una novità assoluta, che si pone al di fuori dei precedenti giurisprudenziali. Ma procediamo per gradi.
Nell'ambito del nostro processo di cognizione è possibile distinguere tre tipologie di azioni processuali: l'azione di mero accertamento, l'azione di condanna e l'azione costitutiva.
Questa tripartizione, condivisa dalla dottrina maggioritaria, ha per lo più una valenza classificatoria in quanto essa non è avvalorata da alcuna norma di diritto positivo; restano infatti escluse alcune forme di tutela che sono ritenute di incerta classificazione, previste dal codice civile e da numerose leggi speciali: la tutela inibitoria ( ), ad esempio, intorno alla quale è aperto da decenni un acceso dibattito volto ad individuarne la natura e la concreta utilità.
L'azione inibitoria è, innanzi tutto, uno strumento volto a garantire la tutela preventiva di determinate situazioni giuridiche; essa è infatti una tecnica di tutela giurisdizionale rivolta verso il futuro, a cui si aggiungono le tradizionali tutele di tipo risarcitorio e restitutorio che operano solo successivamente alla violazione del diritto. In sostanza non si tratta di uno strumento atto a rafforzare la tutela di determinate situazioni privilegiate ma, al contrario, per garantire la protezione effettiva di diritti che altrimenti non sarebbero adeguatamente difesi.
I presupposti di esperibilità dell'azione inibitoria si ricavano dall'analisi delle fattispecie espressamente disciplinate dalla legge. Innanzi tutto, la sua ammissibilità prescinde totalmente dal verificarsi di un danno nella sfera giuridica dell'attore, in quanto si tratta di una tutela di carattere preventivo che viene utilizzata quale rimedio ulteriore rispetto all'azione risarcitoria.
In secondo luogo, sempre in virtù della natura preventiva dell'inibitoria, non si riscontra la necessità dell'elemento psicologico della colpa, che non solo non potrebbe sussistere nelle ipotesi in cui il danno sia solo minacciato, ma non potrebbe nemmeno essere valutato preventivamente in relazione al comportamento futuro del convenuto. Inoltre tale tutela non ha carattere sanzionatorio, quindi non ha rilevanza l'atteggiarsi della volontà dell'agente.
L'unica condizione di esperibilità dell'azione inibitoria è quindi l'illecito, inteso come atto contra jus, cioè come condotta realizzata in violazione di un obbligo giuridico. Il provvedimento in questione viene richiesto al giudice a fronte di un comportamento illecito, di cui si tema la continuazione o la ripetizione in futuro. Non rilevano quindi gli effetti eventualmente dannosi causati dalla condotta del convenuto, quanto il pericolo di reiterazione della condotta stessa. In questo senso si è espressa anche una parte della dottrina( ), sostenendo l'ammissibilità dell'inibitoria anche antecedentemente alla stessa realizzazione dell'illecito, proprio al fine di prevenirne la commissione. Ma quest'interpretazione estensiva non sembra avvalorata dalle norme che disciplinano i casi di inibitoria, le quali prevedono il diritto dell'attore di agire per ottenere la cessazione di molestie e turbative già verificatesi. Esistono tuttavia delle eccezioni,in particolare la legge n. 633/1941 (in materia di protezione del diritto d'autore) che all'art. 156 prevede la concessione dell'inibitoria anche a chi ha ragione di temere la violazione di un diritto di utilizzazione economica della sua opera. Il rimedio inibitorio viene concesso anche se la violazione del diritto è solo temuta.
La presenza di quest'ultimo elemento trova il suo fondamento nella struttura dell'azione inibitoria; essa infatti si concretizza in un ordine di cessazione di una condotta illecita, la quale dev'essere determinabile in base a degli elementi di fatto. Per ottenere la tutela in via preventiva, si deve quindi accertare la presenza di atti preparatori, rivolti in maniera univoca al compimento di un'azione contraria al divieto imposto dalla legge anche se per ottenerlo è necessaria la sussistenza di un timore ragionevole( ). Un altro aspetto peculiare dell'azione inibitoria si ravvisa nell'oggetto dell'ordine giudiziale, il quale può contenere l'imposizione di un obbligo di fare o di non fare, a seconda che la condotta illecita sia di carattere commissivo o omissivo, anche se il tratto caratteristico dell'istituto è che il provvedimento del giudice, nella maggior parte dei casi, riguarda l'ordine di non fare in futuro.
Riassumendo,( ) si può dire che gli elementi imprescindibili che danno luogo alla sentenza inibitoria sono innanzi tutto l'accertamento del comportamento illecito, che si concretizza nella violazione dell'obbligo di fare infungibile o di non fare; segue l'ordine inibitorio, volto alla cessazione delle condotte antigiuridiche e ad impedirne il reiterarsi; infine vi può essere la condanna al ripristino dello status quo ante. La particolare natura delle prestazioni, che sono oggetto dei provvedimenti inibitori, ha portato a molte difficoltà connesse alla loro realizzazione. Esse infatti, non essendo suscettibili di esecuzione forzata, rimangono degli ordini giudiziali sprovvisti di concreta effettività, in quanto il loro adempimento dipende dalla volontà del convenuto ed eventualmente dalla coazione di quest'ultima attraverso delle misure coercitive.
Con particolare riferimento agli strumenti di tutela posti a protezione dei consumatori, il legislatore ha affiancato al rimedio di tipo individuale, esperibile dal singolo consumatore relativamente ad un dato contratto già concluso ed attivabile però solo ex post e al fine di ottenere la declaratoria di nullità della clausola vessatoria in esso inserita, un mezzo di tutela collettivo, l'azione inibitoria, volto a far cessare il fenomeno dell'inserzione di clausole vessatorie nei contratti in via preventiva al fine di salvaguardare determinate situazioni giuridiche per le quali una tutela di tipo risarcitorio o restitutorio, operando come si diceva ex post, sarebbe stata del tutto inadeguata.
In tale ambito l'azione inibitoria può essere concessa in via ordinaria ovvero, sussistendo "giusti motivi d'urgenza", in via cautelare: in entrambe le ipotesi essa costituisce lo strumento per realizzare un controllo preventivo dei contratti, allo scopo di arginare l'esercizio abusivo del potere contrattuale del professionista nella predisposizione di clausole redatte per un impiego generalizzato: l'inibitoria ordinaria, in particolare, mira ad ottenere la pronuncia di una sentenza che inibisca l'uso delle condizioni generali delle quali sia accertata la vessatorietà; quella cautelare, tende ad ottenere una pronuncia (nella forma dell'ordinanza cautelare) che inibisca in via provvisoria l'uso delle condizioni generali delle quali sia accertata la vessatorietà e destinata ad essere confermata o revocata dalla pronuncia definitiva al termine del giudizio di merito. Ora il punctum dolens è che i dati normativi antecedenti alla novella del settembre 2005, e cioè l'art. 1469 sexies c.c. e l'art. 3 della legge 281/1998, prevedono: il 1469 sexies che "le associazioni rappresentative dei consumatori e dei professionisti e le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, possono convenire in giudizio il professionista o l'associazione di professionisti che utilizzano condizioni generali di contratto e richiedere al giudice competente che inibisca l'uso delle condizioni di cui sia accertata l'abusività", inibendo  al singolo contraente di agire in via inibitoria urgente contro la società con cui aveva contratto, mentre l'art. 3 L. 281/98, con un raggio d'azione più ampio rispetto a quello del 1469 sexies, prevedeva  la legittimazione delle associazioni dei consumatori e degli utenti, inserite nell'elenco di cui all'art. 5, ad agire a tutela degli interessi collettivi, richiedendo al giudice competente: a) di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; b) di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate. Il giudice, con l'art. 1469 sexies aveva, in sostanza, la possibilità di sindacare, anche se in via astratta, l'assetto di interessi risultante dal regolamento negoziale e a svolgere un controllo proteso ad espungere dallo schema contrattuale elementi che potessero risultare pregiudizievoli degli interessi dei consumatori, mirando dunque ad un riequilibrio sostanziale dei rapporti negoziali tra parti poste in posizione di sostanziale uguaglianza; con l'art. 3, L. 281/1998, invece, la trama delle clausole disciplinanti una particolare tipologia  negoziale non costituiva un dato ineludibile dell'indagine giudiziale potendo l'azione indirizzarsi verso atti e comportamenti incidenti sui ben più rilevanti diritti fondamentali dei consumatori. La tutela inibitoria delineata nell'art. 3 della legge 281/1998 differisce, dunque, rispetto a quella prevista dall'art. 1469 sexies  c.c. sotto due profili: la legittimazione ad agire ed il tipo di azioni esperibili.
Il passo ulteriore che la giurisprudenza avrebbe dovuto fare per introdurre per via giurisprudenziale la Class Action  sarebbe dovuto essere (vedasi sentenza Trib. Torino cit.) proprio quello di dare un'attuazione fattiva alla tutela di tipo inibitorio ordinata. L'innovazione operata dal Tribunale di Torino è stata proprio in questo senso: il Giudice ha dichiarato la responsabilità di Wind e dopo aver emesso i conseguenti provvedimenti inibitori di cui alla legge 281/98, ha ritenuto che potessero essere ricompresi, sotto il profilo della correzione ed eliminazione degli effetti dannosi già prodottisi, l'obbligo da parte di Wind (quale incorporante di Infostrada) di inviare entro il termine del 25/1/07 a tutti i clienti che avessero sottoscritto il contratto "Solo Infostrada", oggetto della causa, una lettera contenente la spiegazione chiara ed univoca che, stante la mancata attivazione del servizio a partire dall'aprile 2001 per cause imputate alla Wind, avrebbero avuto diritto, previa domanda ed accertamento della sussistenza dei requisiti indispensabili, alla restituzione da parte della Wind medesima di tutti i canoni pagati alla Telecom a far data della sottoscrizione del contratto "Solo Infostrada".
Ora, se è vero che  l'articolo 3 della legge 30 luglio 1998, n. 281 (i cui contenuti sono ora confluiti negli articoli 139 e 140 del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206), riprendendo quanto disposto dal previgente articolo 1469-sexies del codice civile in materia di clausole abusive nei contratti dei consumatori, ha introdotto un meccanismo processuale che costituisce l'avvio di una forma di tutela collettiva degli interessi dei consumatori, è altrettanto vero che il meccanismo dell'articolo 140 del citato codice del consumo consente alle associazioni dei consumatori e degli utenti (e ad altri soggetti collettivi legittimati ad agire negli altri Stati dell'Unione europea) di convenire in giudizio l'impresa e di ottenere dal giudice un provvedimento che inibisca l'uso della clausola di cui si sia accertata l'abusività. Si tratta quindi di provvedimenti di accertamento e di natura preventiva. In sostanza non si era, fino ad oggi, e nonostante il clamore suscitato e i gravi danni causati a migliaia di risparmiatori dai crac finanziari verificatisi negli ultimi tre anni, riconosciuto alle associazioni dei consumatori e degli utenti e ad altri soggetti collettivi il diritto di promuovere azioni di condanna di tipo risarcitorio, quello che oggi è possibile con l'introduzione della class action italiana. Class action che presenta, però, dei "nodi" normativi che una ricostruzione, a mio avviso a tratti interessante, ha ben affrontato e messo in giusta luce:
1) La legittimazione ad agire.
Gli unici soggetti legittimati ad agire sono associazioni di consumatori ed utenti. Si può distinguerle in due categorie. La prima è costituita da quelle già previste negli articoli 139 e 137 Cod. Cons. Si tratta di organizzazioni che devono essere iscritte in un registro ministeriale a fronte del possesso di una serie di requisiti. La seconda è creata dal comma 2 dello stesso art. 140-bis, Cod. Cons., vale la pena riportare esattamente il testo della disposizione: "con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, sentite le competenti Commissioni parlamentari, sono individuate le ulteriori associazioni di consumatori, di investitori e gli altri soggetti portatori di interessi collettivi legittimati ad agire ai sensi del presente articolo". Per quanto riguarda le "ulteriori associazioni" di cui all'art. 140-bis/2 non si detta alcun principio che debba indirizzare la scelta da parte del Ministro della giustizia e del Ministro dello sviluppo economico.
2) Il foro competente per l'azione.
Si menziona testualmente: "la residenza del convenuto". Si tratta di una soluzione imprecisa perchè se il convenuto è un'impresa, che non ha residenza, ma solo sede legale, non si capisce a quale luogo fare riferimento. Per evitare ulteriori confusioni nell'applicazione giudiziale della disposizione, sarebbe meglio sostituire l'espressione con una formula del tipo "la residenza, o, se questa non è conosciuta, il domicilio, o, se residenza e domicilio sono sconosciuti, il luogo ove il convenuto ha dimora. Se il convenuto non è una persona fisica, la competenza è del tribunale ove il convenuto ha la sede legale. In mancanza di sede legale sul territorio italiano, la competenza è determinata ai sensi dell'art. 19, comma 1, secondo periodo, e 19, comma 2, del codice di procedura civile". Quindi, nel caso di un convenuto che non sia persona fisica e che non abbia sede legale in Italia, diverrebbe competente il giudice del luogo ove la persona giuridica ha uno stabilimento e un rappresentante autorizzato a stare in giudizio per l'oggetto della domanda (art. 19/1, secondo periodo). Se poi si trattasse di un ente privo di personalità giuridica, diverrebbe competente il giudice del luogo ove il convenuto svolge attività in modo continuativo (art. 19/2 c.p.c.).
3) La proponibilità di altre azioni collettive.
Secondo il testo approvato: "la definizione del giudizio rende improcedibile ogni altra azione ai sensi del presente articolo nei confronti dei medesimi soggetti e per le medesime fattispecie". Con questa norma si estende ultra partes (ma solo ai legittimati all'azione) l'efficacia della sentenza (o della conciliazione): di conseguenza, gli altri soggetti che hanno già proposto un'azione collettiva si ritrovano paralizzati. Si può ritenere che la norma sia incostituzionale per violazione dell'art. 24 Cost., a meno di ritenere che le associazioni di consumatori e utenti non agiscano in giudizio per la difesa dei "propri" diritti e interessi legittimi, come recita testualmente l'art. 24/1 Cost., ma per diritti e interessi legittimi "altrui". A parte l'eventuale profilo di illegittimità costituzionale, si tratta di una norma del tutto non condivisibile. È facilmente immaginabile che più enti legittimati propongano azioni collettive per il medesimo fatto: quando la prima azione collettiva giunge ad esito, le altre divengono improcedibili, e tutto il lavoro processuale già svolto si trasforma in un'opera completamente inutile. Un ottimo modo per ingolfare senza motivo alcuno l'amministrazione della giustizia. Posto che: a) ogni singolo può comunque agire individualmente per tutelare i propri diritti e interessi legittimi perché lo prevede espressamente il testo legislativo approvato dal Senato (e comunque ciò sarebbe imposto dall'art. 24 Cost.) ; b) qualunque intervento in materia di class action si pone tendenzialmente in contrasto con le previsioni della Costituzione; sarebbe meglio, allora, stabilire che il giudice dichiarasse immediatamente improcedibili tutte le azioni collettive proposte successivamente alla prima contro lo stesso  soggetto e per il medesimo fatto. È una soluzione probabilmente incostituzionale, ma rispetto alla situazione attuale farebbe risparmiare tempo e soldi alla giustizia.
4) Filtri alla proponibilità dell'azione collettiva.
Non si prevede alcun filtro giudiziale sulla proposta di azione collettiva avanzata da un soggetto legittimato. Ciò costituisce un notevole incentivo ad agire anche in assenza di seri presupposti giuridici e fattuali. Si potrebbe, invece, imporre al giudice di svolgere una fase preliminare deputata al sommario giudizio sulla fondatezza della controversia. In particolare si dovrebbe attribuire al giudice il potere di verificare immediatamente il cosiddetto fumus boni iuris, senza entrare nel merito specifico della causa. E precisamente, la verosimile esistenza della: a) legittimazione attiva e passiva( ).

Dott.ssa Cotroneo Rosa Carmen